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Attualità del pensiero di Vittorio Emanuele Orlando, politico e giurista*

di Salvatore Sfrecola

Quella di Vittorio Emanuele Orlando[1] è stata veramente “una vita spesa per l’Italia”[2], da scienziato della politica, maestro di diritto, grande avvocato, illustre parlamentare[3], con importanti responsabilità di governo[4]. Strenuo difensore delle libertà statutarie, il 22 novembre 1924 presenta alla Camera dei deputati un ordine del giorno col quale chiede “il ristabilimento della NORMALITÀ COSTITUZIONALE” [5]. Per poi dire a Mussolini “la libertà non si definisce, si sente”. Il 16 gennaio 1925, insieme a Salandra e Giolitti, presenta un ordine del giorno nel quale contesta quello che ormai si configura come un regime limitativo delle libertà[6]. Intervenendo, poi, alla Camera dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio sul delitto Matteotti, censura i metodi di governo in atto, “che non consentivano l’espressione della volontà popolare[7].

Liberale in politica, Orlando è stato un grande giurista, il fondatore della scuola italiana del diritto pubblico, intimamente collegata alla sua lunga attività parlamentare, come lui stesso sottolineerà il 29 luglio 1949 nel suo ultimo grande discorso politico in Senato: “io sono proprio l’homo parlamentaris”. Lui, lo studioso della rappresentanza politica, e pertanto del sistema elettorale, in un Regno che l’art. 2 dello Statuto Albertino indicava come “retto da un Governo Monarchico Rappresentativo” per rispondere all’esigenza “di chiamare un maggior numero di persone alla partecipazione del potere statale”[8]. Un governo nel quale “al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli… fa i trattati”, ecc. (art. 5 dello Statuto), che tuttavia evolve, sia pure fra ripetute incertezze, in senso parlamentare, che implica l’esistenza di due pilastri istituzionali – due “piloni” come li chiamerà il 12 marzo 1947 Meuccio Ruini in una ormai famosa seduta della Costituente repubblicana -: il capo dello stato e il parlamento[9].

L’opinione diffusa tra gli storici ed i giuristi è che ci sia stata effettivamente, già all’indomani della emanazione dello Statuto, una rapida evoluzione del governo in senso parlamentare. Non più, dunque, il governo “del Re” ma un Esecutivo sorretto dalla fiducia della Camera elettiva, secondo la formula di Thiers “il Re regna e non governa” ma è garante dell’equilibrio tra gli organi costituzionali, cioè un “fattore di stabilità istituzionale”[10] assumendo un ruolo di moderatore e mantenendo compiti effettivi, ma non esclusivi, in particolare nei rapporti internazionali e nel comando delle forze armate[11], con la scelta dei ministri degli affari esteri e della Guerra.

Quella evoluzione, tuttavia, si è realizzata attraverso un processo “non lineare e non univoco, rallentato dalla tardiva comparsa dei partiti politici, ben lontano in ogni caso dal compiersi rapidamente dal tradursi in qualunque momento nell’acquisizione da parte dei deputati di una irreversibile supremazia costituzionale”. E si fa l’esempio dell’entrata italiana nel primo conflitto mondiale “decisa dal monarca, dal presidente del consiglio e dal ministro degli esteri (Vittorio Emanuele III, Salandra, Sonnino) senza interpellare le Camere che sono in quel momento prorogate, alle quali non si “concede” la convocazione nonostante molti deputati ne facciano richiesta”[12]. Lo dimostra il famoso “Torniamo allo Statuto” firmato da un autorevole esponente della Destra, quel Sidney Sonnino appena ricordato[13].

È il Conte di Cavour che viene “considerato – proprio perché la maggioranza parlamentare era la prima base della sua autonoma forza politica – il vero artefice dell’evoluzione “materiale” in senso parlamentaristico dello Statuto (la cui lettera riservava rigidamente al re il potere esecutivo, senza prevedere un voto parlamentare di validazione del governo da lui scelto)”[14]. In tal modo si individuava nella Camera elettiva, contro la previsione statutaria, un’altra fonte di legittimazione della funzione di governo, quale naturale evoluzione del sistema rappresentativo che Cavour riteneva necessario sbocco del movimento liberale fin dal 1847[15]. “Quella di Cavour era l’unica prospettiva possibile per legittimare il Parlamento costruendo e rafforzando la fragile opinione pubblica”[16]. Infatti, un organo è rappresentativo perché elettivo e perché, in quanto tale, deve interpretare, esprimere ed attuare le tendenze spirituali e la volontà reale del popolo. Solo negli ordinamenti in cui almeno un’assemblea legislativa è eletta dal popolo vi è governo rappresentativo: il nodo centrale della teoria della rappresentanza è costituito dalla relazione tra elettore ed eletto[17].

Orlando aveva iniziato giovanissimo a studiare il tema della rappresentanza politica. Ancora studente universitario vince un concorso, indetto dall’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, per uno studio sulla riforma elettorale, tema in quegli anni molto dibattuto, che pubblica con il titolo Della riforma elettorale nel 1881, studio che gli permette, una volta laureato, di ottenere, a soli 22 anni, la libera docenza in Diritto costituzionale e la cattedra all’Università di Palermo[18].

Negli anni successivi Orlando svolge una straordinaria attività scientifica e di organizzazione della cultura giuridica con la promozione e la direzione della prima rivista scientifica del diritto pubblico in Italia, l’“Archivio di diritto pubblico”, che si stampa a Palermo fra il 1891 e il 1896, la direzione ed il coordinamento dei lavori di redazione del primo “Trattato completo di diritto amministrativo italiano”, pubblicato a partire dal 1897.

I contributi offerti da Orlando al diritto pubblico sono stati vari e tutti rilevanti. Di speciale interesse il tema della “forma di governo”, cui dedica un magistrale saggio del 1886 sul governo parlamentare, nel quale emerge la rilevanza che egli ha sempre attribuito al ruolo costituzionale delle assemblee elettive, “derivata da una marcata ammirazione per l’esperienza inglese”[19]. Il suo pensiero in proposito è ancora oggi attualissimo, in particolare quanto alle varie ipotesi di riforma costituzionale di cui si dibatte in questa stagione della politica, tra “presidenzialismo” e “premierato”, tutte collegate ad interventi sulla legge elettorale con attribuzione di un premio di maggioranza, quale strumento individuato per garantire stabilità ai governi. Ricorrente è anche la proposta di introdurre il “mandato imperativo”, per evitare il “cambio di casacca” durante la legislatura, con modifica dell’art. 67 Cost. secondo il quale “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, sostanzialmente speculare all’art. 41 dello Statuto (“I deputati rappresentano la Nazione in generale e non le sole provincie in cui furono eletti.

Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli elettori”)[20].

Quanto alla “forma di governo” Orlando condanna i due “estremi politici”, da una parte, quello radicale giacobino che riduce il governo ad un mero comitato di esecuzione della volontà politica della Camera dei rappresentanti del popolo sovrano, e dunque riduce il governo a mero governo d’assemblea, dall’altra, quello tedesco prussiano che emargina il ruolo della maggioranza politica e del Parlamento considerandolo meramente aggiuntivo alla sostanza istituzionale del governo, dato dalla stessa monarchia[21]. Orlando costruisce in alternativa la soluzione giuridica di un governo fondato sulla maggioranza presente in Parlamento ma anche su un ruolo non meramente notarile del Capo dello Stato. Per Orlando, infatti, non c’è un forte governo parlamentare senza una forte e stabile maggioranza politica, ma parimenti non c’è uno stabile governo senza un forte ruolo, di equilibrio, ma anche di sostegno, del Capo dello Stato[22]. Infatti, per lui “maggioranza parlamentare ed influenza regia, del capo dello Stato, avevano trovato un loro ideale punto di incontro nella configurazione istituzionale del governo parlamentare”[23]. In sostanza, il Parlamento eletto rappresenta la nazione nei confronti della quale è responsabile il potere esecutivo[24].

Questa impostazione di Orlando, che richiama in qualche modo i due “piloni” di Meuccio Ruini, di cui si è detto, il Capo dello stato e il Parlamento, contrasta nettamente con le ipotesi di premierato oggi in discussione, con pari impegno difeso[25] e contrastato[26], in particolare con riferimento al ruolo del Presidente della Repubblica che viene in qualche misura ridimensionato[27]. Come quello delle Camere, secondo un modello definito “neoparlamentare”, sulla base del quale le dimissioni del Presidente del Consiglio comportano in ogni caso lo scioglimento delle assemblee legislative in alternativa a forme di razionalizzazione che consentono la continuità della legislatura e la formazione di esecutivi diversi, nonostante le dimissioni del premier eletto. Orlando, liberale, non aveva simpatia per il governo “del premier” già attuato dal regime fascista con riduzione del potere del Capo dello Stato e la sottrazione del fondamentale potere di scioglimento delle Camere.

Il dibattito intorno al rapporto Governo-Parlamento, in realtà, parte da lontano, si è sviluppato nel corso della vigenza dello Statuto Albertino ed è stato ripreso in Assemblea Costituente sulla base di una relazione di Costantino Mortati  che dà luogo ad un dibattito con la partecipazione di alcune delle maggiori personalità presenti nella Costituente da Einaudi a Calamandrei, da Ambrosini a Tosato, da Lussu a Bozzi, al termine del quale fu votato l’ordine del giorno Perassi nel quale, dopo aver dichiarato inadatto al sistema politico italiano il governo presidenziale, si operava una scelta a favore del governo parlamentare, “tuttavia” da correggere e disciplinare “con dispositivi costituzionali idonei a garantire la stabilità nell’azione di governo e a evitare le degenerazioni del parlamentarismo”, cioè, in pratica, lo slittamento nel governo assembleare[28].

È evidente la lontananza di queste ipotesi dalla democrazia parlamentare all’inglese, che tanto piaceva ad Orlando, intesa nel suo significato storico tradizionale di “meccanismo proteso a garantire l’equilibrio tra i poteri”[29], convinto che l’efficienza del Governo sia assicurata da una maggioranza parlamentare in speciale consonanza con l’elettorato in virtù di una legge elettorale capace di selezionare una classe politica di buon livello. È il tema della rappresentanza politica che è diversa dalla “rappresentanza degli interessi” in ragione della natura degli interessi perseguiti: “generali” nella prima, “collettivi” nella seconda. Per cui la rappresentanza politica si può definire “rappresentanza degli interessi politici”[30], che necessariamente “postula il momento elettivo. Solo la rappresentanza elettiva è rappresentanza democratica nel senso che in essa si realizza il precetto partecipativo”[31].

È nota la tesi ricorrente secondo la quale la governabilità sarebbe limitata dal “parlamentarismo”, considerato un’anomalia del sistema politico in quanto ritenuta causa della “debolezza dell’Esecutivo”, sovente qualificata “impotenza”. Ciò nell’assunto che “una assemblea elettivo-rappresentativa (parlamento o consiglio locale) per esercitare la sua funzione di controllo, deve avere dinanzi a sé un “governo” dotato di potere decisionale relativamente autonomo, e dunque munito di una legittimazione diversa da quella dell’assemblea stessa[32]. Tranne, poi, a riscoprire il senso profondo delle istituzioni rappresentative quando messe in ombra da un governo “forte”, come nel caso “emblematico” di “Gaetano Mosca, il grande teorico della classe politica e dei vizi strutturali del parlamentarismo che, all’avvento del Fascismo, difende, da senatore, i valori del parlamento contro la dittatura”[33].

A noi piace molto Orlando, strenuo difensore del sistema parlamentare, anche perché ne riconosce i limiti, dovuti essenzialmente all’ingerenza dei partiti che incide sull’essenza stessa della rappresentatività delle Camere elettive, in conseguenza dell’influenza determinante delle indicazioni dei partiti rispetto alla scelta dell’elettore.

A ben vedere, dunque, la crisi del sistema è crisi della classe politica, del “personale della politica”, del suo reclutamento e della sua formazione anche quanto ai valori cui fa riferimento in rapporto a quelli del pubblico[34]. Orlando, dunque, avrebbe certamente convenuto con quanto scrive Manzella per il quale la questione della rappresentanza è collegata, a sua volta, a tre precise situazioni “condizionanti l’ordine democratico dell’attualità”.

“La prima situazione è la desertificazione, lo svuotamento dei luoghi di organizzazione politica della società. Con l’indebolimento dei partiti politici e dei sindacati (le “agenzie speciali” degli ultimi due secoli), si è moltiplicata la rumorosità del sociale ma se ne è affievolita la voce e la progettualità politica.

La seconda situazione condizionante è l’insufficienza dell’attuale concetto di cittadinanza attiva ad assicurare una reale rappresentanza della società così com’è: la rappresentanza politica che non tenga conto della complessità della comunità di riferimento è una rappresentanza incompleta di senso politico.

La terza situazione condizionante è la radicalizzazione del principio comunitario territoriale: con la moltiplicazione di localismi e micro-protezionismi di ordine economico, etnico e linguistico. La giusta difesa di identità culturali degenera così in lesione del principio di nazionalità, nella sua moderna concezione di principio di unità costituzionale. Lesione, insomma, di quel codice unitario di libertà economiche, sociali, culturali incorporato nella moderna idea di Nazione costituzionale” [35].

Oggi la rappresentanza politica è una finzione giuridica poiché essa non dà vita a nessun vero rapporto di rappresentanza fra eletti ed elettori, dal momento che gli attuali sistemi elettorali “sono assai mediocri espedienti, preferibili al sistema dell’estrazione a sorte adottato da qualche antica democrazia, per esempio, da quella ateniese, ma pur sempre di molto inferiori allo scopo che vorrebbero proporsi[36].

Avverte Orlando che la caratteristica più saliente della forma di governo rappresentativo risiede nella rappresentanza, nozione che, “come fatto esterno e visibile non presenta difficoltà: grave invece ed alquanto oscuro è il problema dell’intima essenza giuridica di questa nozione. L’intenderla in un modo o in un altro ha un’importanza decisiva per una giusta valutazione dei principi fondamentali del diritto pubblico moderno”[37]. E spiega che, a differenza della rappresentanza medievale, nella quale i rappresentanti del terzo stato erano veri mandatari della comunità, per cui potevano e dovevano agire solo in conformità a quelli, rispondendo personalmente della loro condotta, nel diritto pubblico moderno[38] il popolo appare come una unità organica. La fonte della sovranità è unica, la partecipazione alla vita pubblica appartiene ai cittadini non ai corpi privilegiati, con la conseguenza che il deputato non rappresenta il corpo elettorale che lo ha scelto bensì tutta la nazione come specificato nell’articolo 41 dello Statuto albertino: “I Deputati rappresentano la Nazione in generale”, già ricordato.

Orlando è per i collegi uninominali, naturalmente all’inglese, che esaltano il rapporto eletto-elettore mentre, a suo giudizio, il sistema della rappresentanza proporzionale ha un difetto sostanziale, quello di interrompere completamente quel rapporto vitale ed organico che stringe l’eletto con un determinato corpo elettorale, di un determinato territorio, anche se il deputato rappresenta la nazione e non il suo collegio.


* Scritto destinato al volume “Umberto I, il Re buono” nella Collana “L’Italia in eredità”, diretta da Alessandro Sacchi.

[1] Nato a Palermo il 19 maggio 1860, pochi giorni dopo lo storico proclama di Salemi nel quale Giuseppe Garibaldi aveva assunto la dittatura “in nome di Vittorio Emanuele re d’Italia”, Orlando percorre l’intera vita del Regno d’Italia. Infatti, morirà a Roma 1° dicembre 1952. Pochi giorni prima aveva discusso la sua ultima causa di fronte alla seconda sezione civile della Corte di Cassazione. Nello stesso anno aveva dato alle stampe due saggi di speciale interesse: una lunga introduzione alla ristampa dei suoi Principi di diritto amministrativo, pubblicati la prima volta nel 1891, ed un abbozzo di un saggio sui partiti politici, in cui Orlando si misurava “con la grande novità della rilevanza costituzionale dei partiti politici, in qualche modo contenuta nella Costituzione repubblicana” (M. Fioravanti, Vittorio Emanuele Orlando: il giurista, cit., p. 18).

[2] Così Marcello Pera, Presidente del Senato, nell’introduzione a AA. VV., Vittorio Emanuele Orlando: lo scienziato, il politico e lo statista, I Convegni della Sala Zuccari, Senato della Repubblica, 4 dicembre 2002, Rubbettino, VII.

[3] Eletto per la prima volta nel 1897, è stato due volte Presidente della Camera (dal 1° dicembre 1919 al 25 luglio 1920 e dal 14 luglio 1944 al 25 settembre 1945). A testimonianza del suo stile di uomo delle istituzioni merita leggere Parlare in Parlamento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2013, che riproduce, con prefazione di Valdo Spini, uno scritto pubblicato da Il Ponte, VII (giugno-luglio 1951, n. 6, pp. 567-585) che costituisce un vero e proprio “elogio” del Parlamento nel quale ricorda che vale la pena di fare il parlamentare solo se si ha un rapporto autentico con l’elettorato.

[4] Ministro dell’istruzione, della giustizia, dell’interno e Presidente del Consiglio nella fase finale della Grande Guerra, dopo Caporetto. Il 22 dicembre 1917, parlando alla Camera, chiamò gli italiani a “resistere, resistere, resistere”. Resse il Governo fino al termine del conflitto e, pertanto, è stato il “Presidente della Vittoria”.

[5] Sostanzialmente il contenuto dell’ordine del giorno Grandi, presentato al Gran Consiglio del Fascismo il 24 luglio 1943 per richiedere “l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali” (L. Federzoni, Memorie di un condannato a morte, Le lettere, Firenze, 2013, p. 123) o, più esattamente, “il ritorno alla legalità costituzionale” (A. De Stefani, Gran Consiglio ultima seduta 24-25 luglio 1943, Le Lettere, Firenze, 2013, p.35).

[6] “La Camera, ritenendo che sia pregiudizievole ad ogni questione attinente alle elezioni politiche il pieno e completo affidamento che la volontà popolare possa esprimersi in condizioni di libertà, in ognuna delle sue forme, individuale, di domicilio, di stampa, di riunione e di associazione, ritenendo che tali condizioni non si avverino e non possano avverarsi con l’attuale metodo di governo, passa all’ordine del giorno”, in L. Salvatorelli e G. Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Einaudi, Torino, 1964, p. 355.

[7] G. Andreotti, Vittorio Emanuele Orlando visto da vicino, in AA. VV., Vittorio Emanuele Orlando: lo scienziato, il politico e lo statista, cit. 6.

[8] P. Operti, Commemorazione dello Statuto, Volpe editore, 1976, p. 9.

[9] P. Colombo, Con lealtà di Re e con affetto di padre, Il Mulino, Bologna, 2003, p.109.

[10] A. Campi, I caratteri monarchici delle moderne democrazie, Il Messaggero, 12 febbraio 2024.

[11] F. G. Scoca, Risorgimento e Costituzione, Giuffré, Milano, 2021, p. 208-209.

[12] P. Colombo, op. cit, p. 155.

[13] In Nuova Antologia, vol. LXVII, 1° gennaio 1897, p. 1.

[14] L. Cafagna, Cavour, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 167.

[15] R. Romeo, Cavour, RCS, Milano, 2005, p. 116.

[16] G. Rebuffa, Lo Statuto albertino, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 38.

[17] D. Nocilla – L. Ciaurro, Rappresentanza politica (voce), in Enciclopedia del Diritto, vol. XXXVIII, p. 565.

[18] Insegnerà poi a Modena, Messina, e nuovamente a Palermo nel 1889 alla cattedra di Diritto amministrativo, dove insegnò per un periodo anche Istituzioni di Diritto romano (scrisse anche un manuale della materia).

[19] M. Fioravanti, Vittorio Emanuele Orlando, cit., p. 19.

[20] Sulla base di questi principi Orlando spiega come è facile valutare “l’erroneità di quella dottrina (che è tuttavia la prevalente) che vede nel fatto della elezione una delegazione di poteri, o, in termini correlativi, un vero e proprio mandato che il corpo elettorale dà all’eletto. Ora il mandato suppone in primo luogo la revocabilità di esso, a libito del mandante, il che per Diritto pubblico moderno non avviene. In secondo luogo, il mandato suppone l’obbligo nel mandatario di uniformarsi all’incarico ricevuto: in altri termini, ogni mandato, per sé stesso, è imperativo, il che abbiam visto non essere ammesso nello Stato rappresentativo moderno. Infine, i mandanti sono obbligati dai loro mandatari solo in quanto essi conferirono l’incarico, e nei limiti di esso: invece per il Diritto pubblico moderno abbiamo detto che l’obbedienza politica è incondizionata, e il deputato rappresenta non solo i propri elettori ma tutta la nazione, cioè anche quelli che non cooperarono alla sua elezione” (V. E. Orlando, Principii di diritto costituzionale, Barbèra, Firenze, 1889, p. 69). Importante, E Burke, No al mandato imperativo, in La rappresentanza politica, Arcana Imperii, Collana di scienza della politica diretta da Gianfranco Miglio, Giuffrè, Milano,p. 65.

[21] M. Fioravanti, op. ult. cit., p. 20.

[22] M. Fioravanti, op. cit., p. 30.

[23] M. Fioravanti, op. cit., p. 20.

[24] R. C. van Caenegem, Il Diritto costituzionale occidentale, Carocci, Roma, 2003, p. 217.

[25] P. Becchi e G. Palma, Il premierato, Historica, Roma, 2023.

[26] M. Ainis, Capocrazia, La Nave di Teseo, Milano, 2024.

[27] Come segnala l’ex Ministro Giuliano Urbani in una intervista al Corriere della Sera del 6 febbraio 2024.

[28] E. Cheli, Costituzione e politica – Appunti per una nuova stagione di riforme costituzionali, Il Mulino, Bologna, 2023, p. 88, che richiama la relazione Mortati dove si conclude che “è inutile affannarsi a creare congegni tecnici per ottenere una maggiore stabilità di governo, se prima non si tengono presenti gli elementi politico-ociali che sono il presupposto necessario perché questi congegni funzionino a dovere”.

[29] M. Fioravanti, Vittorio Emanuele Orlando, cit. p. 21.

[30] C. Mortati, Istituzioni di diritto Pubblico, Cedam, Padova, 1975, vol. I, p. 221.

[31] D. Fisichella, Sul concetto di rappresentanza politica, in La rappresentanza politica, cit. p. 14.

[32] G. Miglio, Introduzione a Verso una nuova Costituzione, Giuffré, Milano, 1983, tomo I, p. 10.

[33] A. Manzella, Il Parlamento: questione attuale, in Lezioni Magistrali di Diritto Costituzionale, a cura di Alijs Vignudelli, Mucchi, Modena, 2002, p. 8.

[34] Molto interessante, in proposito, una recente ricerca su “posizioni e atteggiamento della classe politica in materia di rappresentanza” AA.VV., La classe politica italiana – Struttura, atteggiamenti, sfide, a cura di P.  Isernia, S. Martini, L. Verzichelli, Il Mulino, Bologna, 2023, p. 9.

[35] A. Manzella, Il Parlamento, cit., p. 9.

[36] S. Romano, Lo stato moderno e la sua crisi,Giuffrè, Milano, 1969, p. 22.

[37] V. E. Orlando, Principii di diritto costituzionale, cit., p. 67.

[38] Ricorda D. Fisichella nel suo fondamentale saggio introduttivo “Sul concetto di rappresentanza politica” (La rappresentanza politica, in Arcana Imperii, Collana ci scienza della politica diretta da Gianfranco Miglio, 7) che negli Institutes of the Laws of England, il costituzionalista Edward Coke già nella prima metà del 600 avvertiva che “sebbene ciascuno [rappresentante] sia scelto per (da) una particolare contea o mandamento, tuttavia una volta che è eletto e siede in parlamento, egli svolge il suo ufficio per l’intera nazione”.

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